“La forza d’animo, cioè la resistenza alle avversità unita alla capacità di fronteggiare gli avvenimenti e ricostruire positivamente la propria realtà, è una qualità fondamentale e complessa, che va coltivata in noi stessi, nei nostri figli, nelle nostre famiglie”. Anna Oliviero Ferraris
Avevo solo 19 anni, che sembrano tanti quando si compiono ma che poi così tanti non sono soprattutto se tornando a casa da scuola una madre ti comunica che le hanno telefonato dall’ospedale dicendo che tuo padre ha solo due mesi di vita per un cancro al fegato con metastasi in tutto il corpo. “La vita non è come dovrebbe essere ma è quella che è. E’ il modo in cui l’affronti che fa la differenza”, mi avrebbe detto Virginia Satir. Quando alcuni eventi della vita colpiscono duro come possiamo reagire? È possibile resistere agli eventi dolorosi? Che cosa di positivo dona la sofferenza? Come può l’uomo rimanere in piedi di fronte a eventi dolorosi e perfino tragici, talora? Credo che davanti al trauma, alle ferite psichiche o agli eventi dolorosi siamo tutti chiamati a rispondere con ogni fibra del nostro essere. Non si può rimanere indifferenti al dolore che si prova, anche se per resistere ad esso ci si può anestetizzare e chiudere i pori della pelle psichica alla ricezione di ciò che ci trafigge. Una silenziosa rivoluzione scientifica e culturale che ha assunto il termine di “resilienza” sta studiando le modalità di elaborazione di un trauma e di come nell’essere umano vi sia una straordinaria risorsa interiore, un tratto genetico, che ci permette di affrontare la sofferenza, per quanto pesante essa sia. Uno dei primi studi sulla resilienza, di durata trentennale, fu condotto da Emma Werner (1992) su 698 neonati dell’isola Kauai (Hawai). Molti di loro avevano una probabilità elevata di sviluppare problemi, a causa di diversi fattori di rischio: nascita difficile, povertà, vivere in famiglie con problemi di alcolismo, malattie mentali, violenza, litigi. Tuttavia, i risultati hanno evidenziato che, all’età di 18 anni, mentre 2/3 dei ragazzi presentavano molti disagi, circa 1/3 di essi era cresciuto in maniera adeguata, avviando relazioni stabili, svolgendo attività lavorative ed essendo persone costruttive che coglievano ogni occasione per migliorarsi.
Lo studioso forse più famoso è Boris Cyrulnik, nato a Bordeaux nel 1937 da genitori ebrei di origine russa deportati nei campi di sterminio nazisti. Secondo la teoria di B. Cyrulnik la resilienza è innanzitutto una modalità di elaborazione di un trauma. Cyrulnik, riprendendo un concetto di A. Freud, afferma che occorrono due colpi per provocare un trauma: il primo, in quanto evento reale, provoca il dolore della ferita e la lacerazione della mancanza/perdita e si colloca sul piano delle dinamiche interne; il secondo, in quanto rappresentazione dell’evento, suscita la sofferenza dell’umiliazione collegata a vissuti di abbandono o di diversità/inferiorità e si rispecchia nello sguardo dell’altro, collocandosi sul piano delle dinamiche relazionali esterne. Per elaborare il primo colpo, il corpo e la memoria devono attraversare un lento processo di cicatrizzazione/riparazione utilizzando meccanismi di difesa maturi e funzionali. Per elaborare il secondo è necessario invece un lavoro semantico, una ridefinizione del significato dell’evento e della rappresentazione del proprio dolore all’interno del proprio sistema di relazioni, una metamorfosi nella rappresentazione della ferita. Tale duplice elaborazione, la cicatrizzazione della ferita e la ridefinizione della sua rappresentazione, dovranno procedere parallelamente affinché si realizzi la riparazione; una riparazione che tuttavia non riporterà il sistema psico-affettivo del soggetto traumatizzato allo stato precedente il trauma: non sarà una resilienza nel senso letterale del termine (come in fisica dove un corpo riprende la struttura originaria).
La resilienza può essere dunque definita come “la capacità o il processo di far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante l’aver vissuto situazioni difficili che facevano pensare ad un esito negativo” (Cyrulnik, 2005). “Il piccolo Michelangelo Buonarroti, si narra nella sua biografia, veniva spesso picchiato dal padre, Ludovico, per la sua inclinazione artistica che lo portava a trascurare gli studi, privilegio concesso a pochi allora, per dedicarsi alle arti. Soleva, infatti, trascorrere i suoi pomeriggi in una cava a contemplare, in silenzio, un enorme blocco di marmo bianco; gli operai riportavano al padre, potente signore della città, lo strano comportamento del figlio che la sera veniva ripreso e picchiato. Si legge che il ragazzo avesse scritto nei suoi diari la propria intenzione ferma di non usare le proprie mani per fare male, ma solo per fare opere belle. Qualche anno dopo quel masso enorme di marmo divenne il Davide, famosa opera del genio rinascimentale. Michelangelo attuò, senza saperlo, un atteggiamento di resilienza: la relazione dolorosa col padre non frenò, ma rafforzò in lui la vocazione artistica” (Franca Sartori).
Sabato 16 luglio 2016 a Verona condurrò un workshop sul tema della resilienza per comprenderne le basi scientifiche e i modelli applicativi. Desidero condividere ciò che ho potuto studiare e comprendere su questo tema così importante per risalire sulla barca rovesciata. Le testimonianze di chi è riuscito a superare traumi e dolori ci darà inoltre gli stimoli giusti per comprendere come sia possibile attivare questa facoltà di resistere al dolore e di “andare oltre”.
Libro consigliato sull’argomento: “La resilienza” di Franca Sartori.