Non avere paura della morte
«Solo due genitori che non abbiano paura della morte possono crescere dei figli che non abbiano paura della vita». Erik Erikson.
Un genitore educa alla vita se non teme la morte. «Che cosa significa non aver paura della morte? La questione educativa è qui alla radice. Che cosa significa non temere la propria morte quando, in realtà, tutti ne abbiamo timore e il più delle volte la respingiamo, come se il non esserne consapevoli ci affrancasse dalla sua presenza? Vuol dire che noi “esistiamo” anche di fronte a questo evento certo, che è la nostra fine. Come esseri umani siamo destinati a morire; la morte, insieme alla nascita e al cambiamento, accomuna il destino di ogni essere umano. E quando ci poniamo davanti a questa realtà, ci dovremmo chiedere: ma noi chi siamo dentro questa prospettiva? A questa domanda potremmo rispondere con la professione che svolgiamo, dove abitiamo, lo stato civile, gli studi compiuti, i ruoli che ci competono, ecc. E’ però fondamentalmente diverso chiederci chi siamo davanti al grande mistero dell’ultimo respiro, di quel momento che segnerà in modo inesorabile l’addio a questa forma di vita terrena. Solo quando prendiamo sul serio noi stessi di fronte alla morte, possiamo crescere dei figli che non abbiano paura della vita. Si insegna a non avere paura della morte quando si sa testimoniare come sia cosa bella, buona e giusta alzarsi alla mattina benedicendo il nuovo giorno e arrivare alla sera facendo altrettanto. Se davanti al mistero della vita siamo persone che non cadono nell’angoscia del vuoto valoriale o che non sono assorbite dal nero del pessimismo esistenziale, diveniamo fari di speranza e di fiducia per il futuro dei nostri figli. Questo non significa che non possiamo avere dei dubbi, delle domande, delle cadute o delle trepidazioni. Se così fosse, non saremmo più umani e diventeremmo alienati rispetto alla fragilità in noi presente che, come lievito, ci permette di crescere e di divenire persone solide, mature e responsabili. La fragilità della vita si rivela proprio nel suo opposto: la presenza della morte. Un figlio ci guarda, ci sente, ci osserva e ci ascolta. Come ragiona, a livello inconscio, un figlio? Se mia madre e mio padre sono in grado di credere nella bellezza della vita, nel valore dell’impegno e della fatica, nella coerenza ai propri valori e, ancor di più, se sono capaci, nonostante un giorno tutto dovrà terminare, di testimoniare il loro vivere con entusiasmo e passione, significa che posso farlo anch’io.
Ogni genitore è l’amministratore fiduciario della speranza che un figlio ripone nella vita e nel futuro.
Da bambino volevo fare il medico. Poi da adolescente volevo fare il musicista. Infine, il buio: la morte di mio padre due mesi prima della maturità liceale è stata per me un temporale scuro che ha messo una tenda nera nell’orizzonte verso il futuro. Il padre è il re leone della famiglia e per un maschio è chi gli insegna a non avere paura di entrare nella savana della realtà esistenziale. Ogni genitore è l’amministratore fiduciario della speranza che un figlio ripone nella vita e nel futuro. Che cosa mi ha permesso di diradare la pece dell’angoscia esistenziale dei miei diciannove anni? I sogni che mio padre era riuscito a realizzare. Sembra strano, ma spesso un genitore educa, senza nemmeno saperlo, con la ricchezza del suo mondo interiore che si svela attraverso il coraggio e la lealtà del suo agire. Mio padre era morto, ma i suoi sogni continuavano a camminare in noi figli, perché aveva vissuto con slancio e passione i giorni che gli erano stati concessi. Se come genitori riusciamo a rimanere vivi sino all’ultimo respiro, mostriamo ai nostri figli come sia cosa buona, bella e giusta affrontare con saldezza di spirito e fervida fiducia l’avventura della vita. E per far questo non occorrono studi, denaro o potere, ma riconoscere che il valore di una vita è racchiuso nello scrigno del dono di sé autentico, generoso e gratuito. (…) Amo molto parlare di mio padre ai giovani che incontro e di come egli mi ha insegnato ad affrontare il cammino della vita, sia con le sue fragilità sia con le sue perle di saggezza. E quando racconto dei suoi ultimi giorni in un letto d’ospedale, cala un silenzio che assomiglia a un raduno di giovani anime nella prateria della sacra curiosità. Le nostre lotte, le fatiche sopportate, i valori per cui abbiamo combattuto, il sapore amaro delle ingiustizie subite e, ciononostante, l’essere rimasti fedele a noi stessi e agli ideali per cui abbiamo speso impegno ed energie, sono la testimonianza più autentica, convincente e appassionante di quanto sia meraviglioso il viaggio della vita. Il tempo può apparire come un grande tiranno, che prende i giorni della vita e li porta via con sé, inghiottendoli nelle sue avide fauci. In realtà, nulla di ciò che siamo stati capaci di costruire e di donare con amore profondo ci può essere tolto, perché l’amore, se vero, traccia solchi incancellabili, che vanno oltre i confini del tempo. Dirò di più: la morte è come il mare che restituisce a chi rimane, tutto ciò che con la propria vita è stato versato in esso. Un figlio raccoglie anche la più minuscola conchiglia in cui ascoltare le voci di due genitori che l’hanno tanto amato. Forse, è proprio questo il segreto dell’eternità: rimanere uniti anche dopo la morte per ritrovarsi, un giorno, di nuovo insieme in un’altra vita». Tratto dalla pubblicazione “Educare? sì, grazie“, pp. 64-66.
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