“Chi nella propria vita si è sempre protetto dalle esperienze di dolore, non potrà offrire agli altri che una vuota consolazione” H. Nouwen
Non si può pretendere di incamminarsi verso la strada della realizzazione personale se non attraverso il riconoscimento della propria vulnerabilità. Che cosa significa vulnerabilità? Significa (deriva dal latino “vulnerare” derivato di “vulnus-eris”, “ferita”) propensione ad essere e a rimanere feriti. Se per diventare invulnerabili ci chiudiamo nei nostri rigidi sistemi di difesa, corriamo il rischio di rinunciare all’amore, all’amicizia, al ricevere aiuto e consolazione. Rendersi vulnerabili significa sapere che è possibile ricevere dei duri colpi a livello relazionale e rimanere feriti nella parte più intima di sé. Colui che ama veramente è disponibile a venir ferito, perché questo è il regalo più bello e autentico da donare al prossimo: aprirsi nella nudità dell’essere noi stessi. Per molto tempo noi soffochiamo la nostra parte più debole e fragile, nascondendola accuratamente al fine di proteggerla e rinchiuderla nell’apparente tranquillità. Così facendo è come se ci sedessimo immobili in mezzo alla notte, respingendo il chiarore di un’alba colma d’amore e di nuovi orizzonti. Se un uomo vuole essere sicuro della strada da percorrere deve chiudere gli occhi e procedere al buio, in quanto è nella notte del dolore che possiamo più facilmente disintossicarci dalle scorie avvelenate di quel freddo che punge il cuore, per poi riconoscere i raggi di calore provenienti dai sorrisi e dalle lacrime di chi viaggia insieme a noi.
Solitudine, malattia, perdite affettive, ingiustizie, maltrattamenti, abusi psicologici, vuoti esistenziali, dipendenze, peccato, ecc, sono alcune delle molteplici esperienze di dolore sperimentate. Cosa accade se non si prende contatto con le proprie ferite? Innanzitutto vengono negate (“io non ho problemi”) o rifiutate (“vade retro sofferenza”). Ciò ha delle conseguenze pesanti nei rapporti interpersonali. Ad esempio, ci si può presentare davanti ad una persona nella convinzione che io sono sempre nel giusto, mentre l’altro è quello che ha sempre dei problemi. Io sono a posto e l’altro deve cambiare, anzi deve diventare come me, così imparerà a stare meglio. In secondo luogo, si arriva alla convinzione di non avere bisogno di essere aiutati, di poter contare unicamente sulle proprie risorse intellettive o sulla propria forza di volontà. Questo atteggiamento di negazione porta ad essere ipercontrollati, ad attuare un sistema di ipervigilanza mentale, che può diventare controllo ossessivo (spesso a livello inconscio) sulla vita degli altri. Chi non sa riconoscere le proprie ferite farà di tutto per tenerle lontane, per evitare di essere toccato nella sua parte più sensibile e dunque, in diverse modalità, tenterà di porre ad una certa distanza ogni evento rievocatore di situazioni analoghe. Questo crea uno stato di tensione interna che con il passare degli anni potrebbe sfociate in crisi di panico o in forti stati d’ansia. In terzo luogo, chi non è consapevole delle proprie ferite tenderà ad assumere il ruolo della persona che si prenderà cura delle ferite altrui con un atteggiamento salvifico tendente a dare indicazioni o soluzioni preconfezionate, senza dare all’altro la possibilità di attivare le proprie risorse interne.
Non è sufficiente mettersi in contatto con le proprie ferite; occorre fare un passo successivo: trasformarle in forza rigeneratrice, aprirsi alla dimensione della pace e della riconciliazione con il proprio passato. Ad esempio, se è vero che “solo un medico ferito può prendersi cura dei propri pazienti” (Jung) è anche vero che egli deve conoscere la strada della guarigione per soccorrere la fragilità altrui. Nessuno può aiutarci se non gli comunichiamo dove siamo, in quali territori ci siamo persi o rifugiati, per difenderci dalle raffiche di solitudine o di violenza che si sono abbattuti come terremoti d’angoscia nei giorni dell’infanzia. Aspettarsi una guarigione senza entrare in contatto con la malattia è come decidere di dimagrire senza mettersi in contatto con l’ansia o il vuoto interiore che origina la voracità alimentare. Quando gli occhi si inumidiscono di una pioggia di lacrime pronte a salpare per i mari della sofferenza, siamo pronti per ravvivare con un’aria pulita e fresca il viaggio del ritorno a casa: il dono dell’essere fedeli a noi stessi!
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