La nascita della vita affettiva è ciò che determina l’orientamento su cui si costruiscono i legami più importanti dell’esistenza.
Per comprendere a che punto siamo nella nostra capacità d’amare dobbiamo partire dal presupposto che lo sviluppo delle risorse affettive è un processo che si svolge lentamente, a partire dalla prima infanzia. Alcune ricerche sostengono che vi sono delle condizioni che possono favorire l’insorgere di una relazione sana o segnata da qualche disfunzione, già a partire dal periodo della gestazione materna. La madre, come primo ma non unico contenitore psichico, riversa sul feto sensazioni, emozioni, sentimenti e pensieri, che rivelano la maturità o l’immaturità del suo percorso psicoaffettivo. E’ certo che quando veniamo al mondo siamo creature predisposte all’apprendimento e con un enorme bagaglio di potenzialità. Siamo come una sorgente d’acqua purissima che nel suo scorrere raccoglie ogni sostanza dell’ambiente circostante, senza adeguati filtri depuratori. Questa è la grande responsabilità da parte del mondo degli adulti: fare da filtro rispetto alle diverse sostanze che possono riversarsi nel fresco e innocente torrente del bambino. Quando l’adulto, in questa prima fase, riesce a compiere tale funzione di protezione, ha già svolto un’opera meritevole di lodevole riconoscimento. Se questo non accade, in questa acqua trasparente si riverseranno sostante tossiche d’ogni genere e la vita che in essa abita incomincerà a soffrirne. Il bambino si sentirà imbrattare dai nocivi scarichi delle altrui immaturità e ferite, con la conseguenza che egli stesso si percepirà come soggetto sporco e sgradevole, immeritevole di essere amato. Una seconda possibilità è che egli imparerà ad essere amato e ad amare in modo mistificato o malato.
La mistificazione è quel processo che altera il senso della realtà, creando delle situazioni di «trance» in cui si perde di vista l’orizzonte dell’autentico bene e il valore di sane relazioni affettive. Noi non siamo le immondizie che altri gettano nel nostro torrente! Noi non siamo i sensi di colpa, la paura di rimanere soli, la vergogna tossica o il senso d’impotenza che si sono riversati su di noi, come pece nera, ne tenero cuore dell’infanzia. Questa è una verità basilare da porre come fondamento alla costruzione di una solida ed accogliente casa dove poter abitare nella leggerezza di una sciolta danza. Non dobbiamo mai dimenticare che il bambino viene profondamente influenzato da ogni evento e dai “segni emotivi-affettivi” di ogni relazione interpersonale. Inoltre non dovremmo mai dimenticare come il bambino sia una creatura spontaneamente generosa, che ha intrinsecamente a cuore la felicità dei suoi genitori. Egli può molto presto rimanere inconsciamente ostaggio dell’infelicità di mamma e papà, o della mancanza di una gioiosa intimità affettiva nella vita di coppia, in quanto “se mamma e papà si vogliono bene significa che mi posso rilassare e occupare della mia crescita”, intuisce dentro di sé il bambino. E’ così che molti bambini possono diventare involontari ostaggi di una dipendenza affettiva, con la conseguenza che una volta divenuti dei giovani adulti rinunciano ad abbandonare la tenda della famiglia d’origine.
La maturità affettiva è una linea che parte dalla dipendenza, si snoda attraverso l’indipendenza, con il suo punto d’arrivo all’interdipendenza.
Sembra un paradosso, ma è nella misura in cui abbiamo potuto sperimentare il senso di una giusta dipendenza che possiamo affrancarci da essa e sviluppare le risorse dell’indipendenza. Questo significa che non possiamo approdare ad un sano sviluppo affettivo senza soffermarci, per un considerevole lasso di tempo, sulla sponda della dipendenza. Un bambino che deve rinunciare al potersi appoggiare sul seno della madre e sul petto del padre, sarà un soggetto deprivato della primaria esperienza dell’intimità affettiva. Il senso dell’intimità affettiva è un’unità di misura che indica la presenza di una maturità sentimentale. Solo chi sa aprirsi alla relazione e desidera costruirla nella condivisione e nel rispetto delle diversità, può sperimentare il profondo e “reale” senso dell’intimità psicoaffettiva. Ma per arrivare a questo occorre, per prima cosa, averne una memoria interna, una sorta di richiamo ancestrale che possa orientare la bussola del cuore verso il prossimo, in modo sereno, fiducioso ed equilibrato. Aprirsi è sempre un rischio, perché ci mette nella condizione di rivelare i nostri bisogni, le nostre fragilità e la nostra debolezza. Se la nostra vulnerabilità originaria è stata sufficientemente rispettata, tenderemo a correre nuovamente il rischio; un po’ come quando si guarda un film drammatico, sapendo che alla fine il bene vince sul male. La vittoria del bene ci permette di guardare le scene più cruente con una forza interna che ci sostiene e ci permette di andare oltre, di non fermarsi sulle sponde del tradimento, della delusione, della paura o dell’angoscia. In fin dei conti è per questo che i bambini amano rivedere lo stesso cartone animato più volte; trovano la certezza che il protagonista del film che incarna il senso del bene alla fine rimarrà intatto e se la caverà, nonostante le diverse avversità che ha dovuto affrontare. E in quel protagonista vedono se stessi, piccoli eroi di un avventura colma d’insidie e segnata dalla presenza di personaggi cattivi a cui si contrappongono quelli buoni; il lieto fine rafforza il senso della fiducia e della positività nel senso della vita.E’ da bambini che iniziamo a scavare le nostre prime trincee, i primi bunker o le prime botole in cui rinchiuderci per difenderci e costruire un piccolo mondo parallelo. Ecco qui un punto cruciale per comprendere il perché di molte difficoltà relazionali nella zona dell’intimità: se è venuta a mancare una giusta dipendenza siamo costretti a rinchiuderci nell’invisibile camera della solitudine, a dover far ricorso a delle forze interne in quanto, quando ne avevamo bisogno, fuori non c’è stato nessuno in grado di accoglierci e di farci sentire “a casa nostra”. Quando si vive da estranei in casa propria, è come se s’iniziasse da subito la vita del clandestino che rimane sempre con il fiato sospeso e con il problema di essere cacciato via, perché ospite indesiderato.